Consenso informato. Cosa cambia con la nuova legge

Consenso informato. Per la prima volta, con il provvedimento approvato ieri in via definitiva, il consenso informato e il testamento biologico diventano anche parte della legislazione ordinaria con un ritardo pluridecennale. Non vi sono dubbi sul fatto che la pratica del consenso informato sia degenerata, talvolta, in una mera attività di medicina difensiva attraverso una eccessiva burocratizzazione del rapporto. L’eccessiva burocratizzazione nega di fatto il diritto, ma “i diritti hanno sempre convissuto con la loro violazione”
L’approvazione in via definitiva da parte del Senato del ddl “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento” è senza dubbio una buona notizia. La legge si struttura sostanzialmente in due parti: la prima sul consenso informato e la seconda sul testamento biologico chiamato “disposizioni anticipate di trattamento”.
Il testo, lungi dall’essere rivoluzionario, è sostanzialmente una fotografia, all’interno di una legge ordinaria, della situazione esistente e che si è affermata per volontà giurisprudenziale – ricostruita sui principi costituzionali e internazionali – per volontà deontologica e per la consuetudine ormai consolidata nelle strutture sanitarie.
Ricordiamo che il consenso informato nel nostro ordinamento viene introdotto dalla famosa sentenza “Massimo” degli anni novanta dello scorso secolo e che di fatto ha aperto la breccia a cambiamenti nella deontologia medica – e non solo – e a parziali modifiche solo in alcune normative di settore. Ricordiamo anche che il testamento biologico era stato introdotto anch’esso per via giurisprudenziale sul caso Englaro.
Per la prima volta, con questo provvedimento, il consenso informato e il testamento biologico diventano anche parte della legislazione ordinaria con un ritardo pluridecennale.

Il consenso informato
L’espressione, come è noto, è la pigra trasposizione dall’inglese informed consent non è certo felice – antepone, in italiano, illogicamente il consenso all’informazione – è però ormai parte integrante della consuetudine delle strutture sanitarie. Il testo normativo la fa propria richiamando, opportunamente gli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea seguendo quanto la giurisprudenza della Corte costituzionale aveva già fissato come principi.

Il Consenso informato è la sintesi di tre diritti fondamentali della persona: l’autodeterminazione prevista dall’articolo 2, l’inviolabilità della persona umana come “libertà della persona di disporre del proprio corpo” prevista dall’articolo 13 e il diritto alla salute previsto dall’articolo 32.

L’autodeterminazione e l’inviolabilità del proprio corpo sono parti integranti del consenso informato e “costituzionalizzano” la persona come felicemente definì questo processo Stefano Rodotà. Non ci possono essere autorità esterne che con fini paternalistici possono sostituirsi alla persona. E’ il cittadino – ricordiamo la felice espressione introdotta dal codice di deontologia medica del 1998– non più paziente che decide sui propri destini di salute, anche laddove forieri di peggioramento secondo i parametri altrui.

Il cittadino come espressione della volontà di uscire dallo status eccezionale di malato e paziente per rimanere nella pienezza dei propri diritti e della propria dignità. Il consenso informato come parte costitutiva del diritto di cittadinanza di ciascun soggetto, dunque. Il testo approvato dal Parlamento, all’articolo 1, è lungo e dettagliato, ancorché non completo e non privo di contraddizioni. L’informazione deve essere “completa” per permettere alla persona di esercitare pienamente la sua autodeterminazione e il primo comma della legge appena approvata specifica che “nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata” fatti salvi i casi di legge.

Un trattamento sanitario è lecito solo con il consenso informato quindi e non possono esistere deroghe paternalistiche proprie di un passato di cui dovrebbero occuparsi ormai solo gli storici.  Nel dibattito parlamentare vi sono stati echi di questo passato nel tentativo – per fortuna risultato vano – di delimitare il perimetro dell’autodeterminazione o, più correttamente, di far saltare la legge in concomitanza con la fine della legisaltura.

I continui richiami all’antico e superato giuramento di Ippocrate – da molti decenni abbandonato tanto che nessun medico in attività lo ha prestato, oggi la formula del giuramento è frutto della elaborazione della Fnomceo – si ponevano in palese contraddizione con l’impianto costituzionale. Un’autorevole storica della medicina, Donatella Lippi, ha scritto e insegnato in tempi non sospetti che “giurare sul giuramento di Ippocrate vuol dire, in primo luogo, accettare un atteggiamento paternalista nei confronti del malato, che non corrisponde più alla moderna bioetica della relazione di cura”.

Non più un medico che dispone la cura con un rapporto fortemente asimmetrico ma un medico che all’interno di una “relazione di cura e di fiducia” – espressione mutuata dal codice di deontologia medica e oggi inserita nel secondo comma dell’articolo 1 – integrata dagli altri “esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe” come recita il secondo comma dell’articolo 1. Opportunamente la relazione di cura si estende a tutta l’equipe curante – quindi anche a infermieri, ostetriche, fisioterapisti e tecnici – che contribuisce a una relazione completa con la persona assistita.

Il terzo comma dell’articolo 1 chiarisce in modo esaustivo l’ampiezza dell’informazione precisando che la persona ha diritto di “conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefìci e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi”.

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Fonte: Luca Benci – Quotidiano Sanità